Elisabetta la Carina di Poggio

Elisabetta Pavolini, chiamata "Betta la Carina" per la sua bellezza, fu la prescelta dal consiglio del paese di Poggio per omaggiare Napoleone durante la sua visita ...


Primavera 1814

Elisabetta, "Betta la Carina" per i paesani del Poggio, scendeva saltellando giù per i massi granitici del Monte Capanne accuratamente aggirando le loro insidie. Era felice. Aveva quindici anni, era una giornata radiosa di sole e i ragazzi del paese la guardavano di già e lei, in cuor suo, poteva trascorrere indenne dall'uno all'altro, covando con la fantasia sguardi ed attenzioni ricevute. Caracollava leggera.

Scansò rapida una lucertola che sbucando improvvisa da un masso l'aveva impaurita. Nella discesa ad un tratto contò i sonori rintocchi del sottostante campanile della Chiesa di San Niccolò. Ne contò undici e bisognava far presto: non le garbava mica sorbirsi i rimbrotti del babbo e le tiritere della mamma. Tagliò per una scorciatoia incrociando il sentierino del Vicinale del Tenditojo, detto così dall'usanza locale di tendervi delle ingegnose trappole per volatili, escogitate da quella comunità ai limiti della sussistenza dove arduo era l'approvvigionamento di proteine animali. Il sentiero si snodava in un'amena, ombrosa appendice del Monte, dove la gente del luogo da gran tempo aveva ricavato, sotto i brevi tornanti descritti da esso, dei minuscoli orticelli a lenticchie, lupini ed altri legumi utili alla mensa domestica.

Fu tentata di recidere dei fiori di lupini che già facevano bella mostra di sé e che avrebbero dato, con l'intensità del loro magnifico azzurro, una nota di contrasto al suo cesto, quasi pieno ormai dello splendente color arancio dei profumati gigli raccolti più a monte. Ma la connaturata prudenza contadina la trattenne dal farlo riflettendo ai frutti che sarebbero venuti meno al desinare.

Proseguì dunque "allo in giù" in direzione di casa sua, verso Piazza del Pesce. Ma prima doveva ispezionare quella cote brulla, ad ovest del paese, alle Pente, meta dei piccoli greggi di capre che vi si arrampicavano al pascolo. Fra i suoi massi, nascosti dietro una cucchiaiata di terra, ricordava che l'anno passato aveva già raccolto dei sontuosi "canteretti" giganti profumatissimi. Fu fortunata e ne ritrovò ancora, risparmiati alla voracità delle capre. Delicatamente recise gli steli carnosi con le piccole cesoie pescate al fondo della cesta, sistemando i narcisi splendenti di giallo accanto all'arancio vigoroso dei gigli.

Ora era quasi soddisfatta: non le mancava che raccogliere le violacciocche spontanee che sortivano a profusione dalle decrepite mura sottostanti Piazza di Chiesa per la strada di casa. Il loro colore ocra che virava al ruggine si fondeva con i toni squillanti presenti nel cesto ma, notò Betta, occorreva un altro colore di contrasto per rompere quella uniformità di toni. Pensò di rimediare passando sotto un'annosa pergola di glicine appena fiorita, davanti ad una casetta malandata di un'anziana paesana che da poco aveva raggiunto in cielo il compagno di vita. Lesta riempì i pochi spazi ancora liberi del cesto di una cascata di grappoli lilla, aulentissimi.

Molto contenta entrò in casa riversando in una conca di rame piena d'acqua il suo bottino floreale e annunciò trafelata e gioiosa "mamma! babbo! Sono tornata!" e si riassestava, aggraziata, i folti capelli riccioli che il sole zenitale, dalla finestrina aperta sulla vallata, illuminò di luce dorata.

Girolama Cuffàro